La prima parte delle «Rime» alfieriane

Dopo il Saul, l’Alfieri tornerà all’attività tragica solo nell’autunno del 1784, quando in Alsazia ideerà l’Agide, la Sofonisba e la Mirra, che porterà poi a compimento solo nel 1786.

Tra queste due fasi della sua attività tragica vi è un lungo periodo che l’Alfieri considerò come un intervallo di inoperosità e di doloroso abbattimento provocato dalla forzata lontananza dalla «sua donna», dopo che il 4 maggio 1783 un ordine papale di espulsione da Roma seguiva al tardo risveglio del tutore della d’Albany, il cardinale di York, finalmente convinto della natura dei rapporti della cognata con il poeta.

Questo periodo di viaggi (prima nell’Italia settentrionale, poi in Francia e in Inghilterra con intervalli di soste a Siena) è contraddistinto non solo da una intensa vita sentimentale (sollecitata appunto dalla dolorosa lontananza della donna amata), ma anche da un’iniziale attenzione dell’Alfieri ai giudizi dei letterati contemporanei sulle tragedie finalmente edite a Siena nel 1783.

Da questa posizione sentimentale di scontentezza, di nostalgia, di sdegno per le incomprensioni della sua opera, trae origine la copiosa produzione di rime di questi anni: il gruppo, piú compatto, della prima parte dell’omonima raccolta alfieriana. Le Rime hanno una certa generale loro continuità, una base comune in un atteggiamento di “libro segreto” e di sfogo autobiografico legato anche a particolari occasioni sentimentali, luoghi e vicende. E anzi l’Alfieri rivelò spesso eccessivamente questo carattere di sfogo della sua «rimeria», distinguendolo dall’impegno piú alto delle tragedie.

In realtà le Rime, mentre costituiscono un complemento essenziale dell’autobiografia dell’Alfieri, hanno un valore piú profondo, esprimendo anche elementi essenziali della sua intuizione e della sua esperienza drammatica della vita. I risultati pieni, assoluti saranno rari, ma nascono da lunghe ondate di tensione e di attrito interiore e poetico dispiegatesi nel gruppo di componimenti minori, imperfetti e pure essenziali appunto in funzione dei rari capolavori. E questi e quelli presuppongono non solo una generale disposizione sentimentale, ma anche una genuina radice ispirativa, una volontà artistica che tende a utilizzare ai propri fini quel ricco mondo sentimentale già disposto liricamente e un’esperienza letteraria sempre piú sicura dopo i tentativi giovanili piú eclettici e incerti.

Tale esperienza letteraria si precisa soprattutto nel valore che l’Alfieri delle Rime dette all’esempio del Petrarca, la cui lettura fu particolarmente assidua negli anni della «lontananza».

In realtà il petrarchismo alfieriano ha caratteri cosí peculiari che mal lo si può ricondurre nei vari termini di una storia del petrarchismo, e tanto meno, ben s’intende, in quello del petrarchismo settecentesco che nel Petrarca vedeva la regolarità, l’evidenza, la gentilezza patetica, la misura e magari la “leggiadria”, perdendone i caratteri poetici piú profondi e quel nucleo di conflitto interiore che viceversa l’Alfieri portava ad una tensione violenta fuori dei suoi termini precisi, personali e storici, caricando a volte la sua stessa immagine del Petrarca di risoluti colori romantici.

Certo anche questo modo preromantico di risentire il Petrarca avrà una sua importanza ed efficacia rinnovatrice nel modo di lettura e di interpretazione successivo all’Alfieri (che cosí anche in tal caso si mostra iniziatore e stimolatore della nuova sensibilità romantica), ma indubbiamente l’Alfieri riprendeva elementi della tematica e della lingua poetica petrarchesca in maniera cosí sua e cosí funzionale alla sua diversa ispirazione e poetica che alla fine si dovrà dire che Petrarca fu soprattutto per lui un fornitore di parole, di frasi, di moduli del linguaggio amoroso sostanzialmente trasformati e spesso addirittura quasi capovolti, quasi base di una violenta ripresa a contrasto. Come avviene per il paesaggio, non in funzione distensiva e rasserenante, non quale elemento di contemplazione di vaghe immagini soavi, ma viceversa in funzione drammatica, quale coefficiente di intensificazione del sentimento doloroso, come proiezione dell’animo e delle sue immagini cupe e tormentose. Come avviene per la stessa funzione della poesia, che nel Petrarca «disacerba» il «duolo» e nell’Alfieri invece ne è intensificata espressione, perché essa è «del forte sentir piú forte figlia»[1] e perché il piacere vero dello sfogo poetico è per l’Alfieri «il far sempre piú viva / mia doglia, e il viver tutto immerso in ella»[2]. Per non parlare dei procedimenti stilistici alfieriani, che sfuggono sempre la distensione e recuperano (nei momenti piú ispirati) una singolare misura di equilibrio solo per una energica composizione di parti tutte portate allo stesso grado di forza e di pienezza robusta (cosí come certa superiore calma malinconica, certa contemplazione piú dolce sorgono solo al culmine di una violenta tensione di immagini e di affetti), mentre al linguaggio morbido ed unito del Petrarca (l’«olio» di cui parlava il Leopardi) fa riscontro nell’Alfieri una diversa energia, asprezza e rilievo delle parole, come al giro perfetto e concluso del ritmo petrarchesco corrispondono le spezzature alfieriane, le energiche arcature, le clausole perentorie e a rilievo.

E oltre tutto, la materia sentimentale e poetica stessa delle Rime esorbita spesso dal semplice schema amoroso e non può tutta inquadrarsi nel rapporto che il mondo poetico del Petrarca ha con la salda, centrale immagine di Laura, che non ha certo in alcun modo un equivalente in quella alfieriana di Luisa Stolberg: immagine incapace di esercitare costantemente una funzione simile a quella di Laura nell’abbondante mondo sentimentale delle Rime. Né queste, anche negli anni della «lontananza», possono ridursi – checché l’Alfieri ne dicesse – solo a «sospiri d’amore», anche perché lo stesso motivo amoroso funzionava soprattutto come stimolo di una piú complessa e vasta espressione del tormentoso e drammatico animo alfieriano nelle sue note piú profonde e radicali.

L’esercizio delle Rime ha un inizio lontano nella gioventú dell’Alfieri e (a parte un sonetto del 1770, prova sciatta ed inesperta di una velleità letteraria senza corrispettivo di ispirazione e di possesso dei mezzi espressivi) si documenta in un primo gruppo di sonetti della fine del 1776 intonati a una delle “maniere” del Settecento: quella dei sonetti “pittorici” sul modello del celebre Ratto di Proserpina del Cassiani (di cui è imitazione il sonetto 1, sul ratto di Ganimede), nei quali si può al massimo osservare come l’Alfieri accentuasse in quel manierismo figurativo-poetico un certo gusto del plastico e del dinamico piú congeniale al suo bisogno di energia e di scatto drammatico. Come non piú che qualche movimento appassionato e sensuale (ad esempio, i vv. 5-6 del sonetto 6) si può sottolineare nel gruppo di sonetti galanti alla marchesa di Ozà dello stesso periodo, che precisano un’attenzione edonistico-sensuale alle belle forme del corpo femminile in moduli di sorridente grazia settecentesca, cosí alieni dal vero gusto alfieriano.

La vera voce della poesia alfieriana si fa sentire invece in quei sonetti di fine ’77-inizio ’78 che esprimono sentimenti già maturati nelle tragedie degli stessi anni, in cui piú debole, meno sicura è l’espressione dei sentimenti amorosi e la tenerezza scade facilmente in languore e patetismo. Come nel sonetto 16 contro lo Stato pontificio o nel sonetto 17 che esprime, in una intensa meditazione sull’anima, il senso doloroso dei limiti della natura umana, delle forza invincibile del «vil servaggio» dei sensi, la coscienza amarissima di un sensista insoddisfatto e romanticamente impaziente di una verità che di tanto riduce le possibilità dell’uomo: «Veder, toccare, udir, gustar, sentire; / tanto, e non piú, ne diè Natura avara»[3]. O soprattutto nel sonetto 18:

Bieca, o Morte, minacci? e in atto orrenda,

l’adunca falce a me brandisci innante?

Vibrala, su: me non vedrai tremante

pregarti mai, che il gran colpo sospenda.

Nascer, sí, nascer chiamo aspra vicenda,

non già il morire, ond’io d’angosce tante

scevro rimango; e un solo breve istante

de’ miei servi natali il fallo ammenda.

Morte, a troncar l’obbrobrïosa vita,

che in ceppi io traggo, io di servir non degno,

che indugj omai, se il tuo indugiar m’irrita?

Sottrammi ai re, cui sol dà orgoglio, e regno,

viltà dei piú, ch’a inferocir gl’invita,

e a prevenir dei pochi il tardo sdegno.[4]

Sonetto che realizza, con potente articolazione e intensificazione di ogni parte del componimento, il sentimento alfieriano della morte agonisticamente ostile e pur liberatrice da una vita di servitú, che vibra, come sempre avviene nella vera poesia alfieriana, di un’angoscia piú profonda e non solamente politica e che pure proprio la passione politica in quegli anni permetteva all’Alfieri di rappresentare poeticamente.

Cosí nelle poesie del ’78-79 si può notare che, mentre piú facile riesce all’Alfieri raggiungere forme poetiche piú sue e notevoli risultati poetici nelle poesie ispirate ai toni drammatici del suo animo, al suo fremente ardore di libertà e al suo senso doloroso del servire o al contrasto fra la sua epoca vile e la grandezza eroica e libera di un passato fortemente idealizzato, molto piú incerti appaiono i risultati delle prime poesie ispirate all’amore per la d’Albany, specie nella disposizione poco alfieriana della passione soddisfatta, del possesso di un bene che acquisterà valore poetico tanto piú vero ed efficace quando sarà lontano e irraggiungibile, mèta di tensione, stimolo di tormento, coefficiente di infelicità, oggetto bramato ed ideale a contrasto con una realtà tediosa, luminoso, arduo simbolo di un valore a contrasto con il mondo mediocre e vile in cui il poeta è costretto a vivere.

Dopo una lunga interruzione fra la fine del ’79 e il maggio dell’83, una nuova attività di rime si inizia appunto nel 1783 sotto lo stimolo della brusca separazione dell’Alfieri dalla d’Albany, della improvvisa perdita della situazione di agio intimo, di equilibrio fra solitudine ed esercizio di affetti mantenuti a lungo negli anni romani. Circa una cinquantina di sonetti nascono cosí tra la fine di maggio e la fine di novembre accompagnando, in forme piú chiare di diario lirico, il viaggiare errabondo e irrequieto dell’Alfieri, «ingegnoso nemico di [se] stesso», in un ciclo poetico intenso e continuo.

Sulla base di una sdegnosa sfida lanciata al pubblico italiano e al suo gusto molle di effeminati (il sonetto 52), un primo gruppo di sonetti commenta un singolare pellegrinaggio presso le tombe dei grandi poeti italiani (quella di Dante a Ravenna, dell’Ariosto a Ferrara, del Petrarca ad Arquà) e atteggia l’omaggio ai grandi poeti del passato[5] in una singolare forma di esaltazione di un mondo alto e aristocratico in cui il poeta si chiude e si innalza di contro alla «gente tanto bassa», alla «turba malnata e ria» in cui si confondono i precisi oggetti dello sdegno piú immediato del poeta (i «pretacchiuoli» della corte romana, i critici malevoli delle sue tragedie) e l’immagine del piú profondo disprezzo dell’uomo superiore, della sua intransigenza di fronte alla bassezza e alla mediocrità, che – con disperata amarezza pessimistica – si avvertono prevalenti e vittoriose nel mondo.

Motivo essenziale di contrasto drammatico che costituisce il legame fra Rime e tragedie, e che accentuandosi e ampliandosi in forme piú esplicite e varie tende e rafforza la stessa tematica amoroso-dolorosa: come avviene del resto per la tematica politica, sotto cui vibra l’espressione di un dramma non soltanto politico, ma piú intensamente personale e di un profondo valore spirituale e poetico.

Non che il sentimento amoroso sia un puro pretesto, ma esso, pur cosí fortemente attivo nell’animo del poeta, agisce soprattutto come incentivo alla fondamentale disposizione sentimentale e poetica dell’Alfieri a movimenti disperati e drammatici. Come si può ben verificare nel sonetto 61, in cui la situazione particolare della lontananza si confonde con una compiuta, efficacissima rappresentazione della piú generale condizione dell’animo alfieriano, della dolorosa, scontenta esperienza alfieriana della vita («noja e dolor»), malinconica e sdegnosa, delusa e animata dal drammatico contrasto con il «mondo», «empio, traditor, mendace», «che i vizj apertamente onora»:

Non giunto a mezzo di mia vita ancora,

pur sazio e stanco del goder fallace

son di quest’empio, traditor, mendace

mondo, che i vizj apertamente onora.

Ma, se noja e dolor cosí mi accora,

perché non cerco la immutabil pace

là dove in boschi solitaria giace,

e di vergini rose il crin s’infiora?[6]

Ed anche quando l’Alfieri tenterà, con assoluto insuccesso, aperti motivi idillici cosí estranei alla sua ispirazione, come nel sonetto 62, in cui vagheggia una soluzione di beata tranquillità campestre e pastorale alla dolorosa separazione, l’avvio idillico si concluderà in un moto di sdegno e di contrasto che è la vera anima di questo sonetto, la sua punta piú alfieriana e coerente alla poesia delle Rime: «e l’anima secura / non volger mai ver l’ammorbato mondo?»[7].

E mentre le immagini liete e idilliche del paesaggio si convertono piú spesso in immagini selvagge ed aspre (sonetto 63), lo stesso moto impaziente del poeta, che vuole la natura simile a sé e al suo tormento, supera per intensità la stessa occasione che lo stimola (la privazione della donna amata) e l’esclamazione dolorosa «Pace e letizia son dal mondo in bando» allude, con il suo suono assoluto e perentorio, ad una intuizione pessimistica della vita, piú totale e profonda della precisa condizione del suo tormento amoroso.

Esemplare in tal senso è il sonetto 65, la cui conclusione, con il suo preciso riferimento all’occasione amorosa, fu del resto aggiunta solo in un secondo tempo (come l’Alfieri scrisse sul manoscritto), quasi che il poeta avesse stentato a trovare il modo di accordare quell’esplicito riconoscimento dell’occasione con il potente, assoluto dialogo interiore con la personificazione della malinconia che lo occupa e lo tormenta in una tetra, allucinata visione del proprio animo: unico «seggio» di quella «furia atroce», destinato ad una vita di perenne dolore, di «insopportabil noja» ben piú dalla propria natura che non dalla vicenda biografica che pure sollecita il poeta, nella tensione dolorosa che essa provoca e nell’analisi psicologica cui essa lo avvia:

Malinconia, perché un tuo solo seggio

questo mio core misero ti fai?

Supplichevol, tremante ancor tel chieggio;

deh! quando tregua al mio pianger darai?

L’atra pompa del tuo feral corteggio

ben tutta in me tu dispiegasti ormai:

infra larve di morte, or di’, mi deggio

viver morendo ognor, né morir mai?

Malinconia, che vuoi? ch’io ponga fine

a questa lunga insopportabil noja,

pria che il dolor giunga a imbiancarmi il crine?

Dunque ogni speme di futura gioja,

che Amor mi mostra in due luci divine,

caccia; e fa’ ch’una intera volta io muoja.[8]

Ma questi momenti alti non trovano adeguata forza e compattezza nel resto di altri componimenti amorosi dello stesso periodo, anche se l’Alfieri ha del tutto superato ormai la tentazione di forme galanti-edonistiche, di concessioni idilliche, e regge comunque i suoi sonetti in forme generali piú sue, con una generale estrema capacità di varietà di movimenti psicologici e con una forte nobiltà sentimentale e poetica.

Ben altro è il risultato poetico quando l’Alfieri riesce a trovare nell’occasione un’ispirazione piú profonda e adeguata all’espressione dei suoi sentimenti piú assoluti, riesce ad istituire un dialogo drammatico con i propri miti piú intimi. Come avviene di nuovo nel sonetto 72, in cui è da osservare anzitutto il caratteristico, violento apparire dell’immagine della morte che risponde come mito piú vero dell’animo alfieriano alla invocazione alla donna amata e imposta tutto uno svolgimento di immagini tetre, ossessive, di aspirazione alla pace della tomba entro l’atmosfera congeniale di un cupo tempio «antico» e pieno di avelli[9], nell’intensa contemplazione di una tomba che chiude un «par d’alti amanti», nel succedersi dell’impeto del grido che esalta quella tragica felicità accentuata dal contrasto con il «mondo infido», della interrogazione movimentata e drammatica («continua guerra», «d’uno in altro lido»), della clausola bramosa e tetra che sugella questo potente desiderio di unione assoluta nella morte:

Te chiamo a nome il dí ben mille volte;

ed in tua vece, Morte a me risponde:

Morte, che me di là dalle triste onde

di Stige appella, in guise orride e molte.

Cerco talor sotto le arcate volte

d’antico tempio, ove d’avelli abbonde,

se alcun par d’alti amanti un sasso asconde,

e tosto ivi entro le luci ho sepolte.

Sforzato poi da immenso duolo, io grido:

felici, o voi, cui breve spazio serra,

cui piú non toglie pace il mondo infido! –

È vita questa, che in continua guerra

meniam disgiunti, d’uno in altro lido?

Meglio indivisi fia giacer sotterra.[10]

Cosí l’accento poetico piú forte delle rime, specie in questo gruppo compatto e continuo dell’83, batte sugli elementi piú intensamente drammatici e la posizione del poeta è piú costantemente caratterizzata dal tormento della lontananza, dallo sdegno e dal contrasto con il «mondo» e con i suoi vari aspetti di decadenza dei valori. Cosí si spiega il violento attacco a Genova nel sonetto 76, all’Italia nel sonetto 77, la sdegnosa distinzione delle proprie rime d’amore dai «lunghi e freddi sospir d’amor volgari» del sonetto 82 e del sonetto 96 che, mentre ribadiscono il particolare valore di sincerità e di originalità sentimentale, se non di grande poesia, che l’Alfieri attribuiva alle rime («Ch’io, se non altro, ardentemente amava», son. 82, v. 14), indicano anche bene il centro animatore della poetica delle Rime, basata sulla profondità, sincerità e potenza del sentimento, sulla novità del contenuto sentimentale, sul romantico primato del cuore (non «ingegno» ed «arte»), sulla fedeltà alla piú profonda realtà autobiografica, sulla poesia come intensificazione di stati d’animo drammatici, su di una nuova armonia ed equilibrio raggiunti con la tensione e la forza.

Elementi di poetica già tradotti in adeguati procedimenti espressivi e ora potentemente realizzati in un grande sonetto, l’89 (2 novembre 1783), nel quale la tensione di tutto quel periodo trova la sua misura:

Là dove muta solitaria dura

piacque al gran Bruno instituir la vita,

a passo lento, per irta salita,

mesto vo; la mestizia è in me natura.

Ma vi si aggiunge un’amorosa cura,

che mi tien l’alma in pianto seppellita,

sí che non trovo io mai spiaggia romita

quanto il vorrebbe la mia mente oscura.

Pur questi orridi massi, e queste nere

selve, e i lor cupi abissi, e le sonanti

acque or mi fan con piú sapor dolere.

Non d’intender tai gioje ogni uom si vanti:

le mie angosce sol creder potran vere

gli ardenti vati, e gl’infelici amanti.[11]

Qui tutti gli elementi sentimentali precedentemente notati ritornano singolarmente forti e piú chiaramente articolati nel loro reciproco rapporto, tutti i procedimenti espressivi delle precedenti rime vengono applicati con coerenza e preciso impiego della loro funzione. E soprattutto il sentimento doloroso trova un suo superamento in una impressione di voluttà malinconica ed eccezionale perdendo i caratteri piú aspri, immediati e pratici dello sfogo, e il paesaggio selvaggio e solitario collabora continuamente con l’espressione dei motivi piú intimi: vero paesaggio come proiezione dell’animo in senso ormai decisamente romantico.

Dopo un lungo intervallo di mesi, l’attività poetica alfieriana ebbe una nuova ripresa nell’estate dell’84 a Siena, la città delle sue piú care amicizie e della diletta, pura lingua toscana.

Ma anche qui il centro della ripresa non è certo il sentimento di agio, o almeno di quiete, provato dall’Alfieri nel ritrovarsi fra gli amici senesi, in una città amata e propizia a toni piú pacati e indulgenti; e proprio nei due mesi passati a Siena la poesia delle Rime ha un nuovo impulso energico e drammatico nel sonetto 107, in cui tutta la forza del sentimento e della fantasia dolorosa si concentra nel bellissimo inizio e si svolge in una dolente fantasticheria funebre (la donna amata «egra giacente all’orlo della vita») concludendosi nell’impeto risentito, fra l’interrogazione improvvisamente eretta a tradurre l’assurdità di una sopravvivenza del poeta alla propria donna, e l’affermazione risoluta della propria decisione di precederla nella morte:

Quel tetro bronzo che sul cuor mi suona,

e a raddoppiar mie lagrime m’invita,

ogni mio senso istupidito introna,

e mi ha la fantasia dal ver partita.

Di lei, che lungi sol dagli occhi è gita,

parmi ch’io veggo la gentil persona

egra giacente all’orlo della vita,

che in questo pianto or solo mi abbandona.

E in flebil voce: o mio fedel (mi dice)

di te mi duol; che de’ sospir tuoi tanti

nulla ti resta, che vita infelice.

Vita? no, mai. Dietro a’ tuoi passi santi

io mossi, ove al ben far m’eri radice;

ma al passo estremo, irne a me spetta avanti.[12]

Di nuovo la «lontananza» funziona come stimolo di una rappresentazione drammatica dell’animo dolente e irrequieto, come dolente e irrequieta è l’immagine di una vita errabonda e senza scopo di cui l’Alfieri – pur assegnandone una precisa ragione: la perdita della donna amata – intuisce poeticamente la ragione piú profonda: la sua nativa scontentezza, la delusione di ogni elemento del presente, l’illusorio e tormentoso miraggio di una mèta felice che sempre gli sfugge e che egli stesso respinge continuamente davanti a sé nella sua impossibilità di godere di un bene attuale e posseduto. Come dicono le quartine del sonetto 108:

Le pene mie lunghissime son tante,

ch’io non potria giammai dirtele appieno.

D’atri pensieri irrequïeti pieno,

neppure io ’l so, dove fermar mie piante.

Misera vita strascino ed errante;

dov’io non son, quello il miglior terreno

parmi; e quel ch’io non spiro, aere sereno

sol chiamo; e il bene ognor mi caccio innante: [...].[13]

Ma la fantasia dolorosa ha pure momenti di passeggero sollievo e compenso e il poeta può accordare originalmente intensità dolorosa e superiore calma malinconica e contemplazione di immagini consolatrici, anche se illusorie, come avviene nel grande sonetto 135, scritto a Marina di Pisa il 4 gennaio 1785:

Solo, fra i mesti miei pensieri, in riva

al mar là dove il Tosco fiume ha foce,

con Fido il mio destrier pian pian men giva;

e muggían l’onde irate in suon feroce.

Quell’ermo lido, e il gran fragor mi empiva

il cuor (cui fiamma inestinguibil cuoce)

d’alta malinconia; ma grata, e priva

di quel suo pianger, che pur tanto nuoce.

Dolce oblio di mie pene e di me stesso

nella pacata fantasia piovea;

e senza affanno sospirava io spesso:

quella, ch’io sempre bramo, anco parea

cavalcando venirne a me dappresso...

nullo error mai felice al par mi fea.[14]

In questo sonetto infatti, il motivo ispiratore è la dolcezza di una malinconia profonda, assorta, ma priva dello sfogo piú pratico del pianto (sospiro, non affanno), capace di tradursi in un’immagine intensa, ma dolce, in un «errore», in una illusione che, pur in questo suo carattere illusorio ben consapevole, ha la forza di una superiore realtà consolatrice. E il paesaggio tempestoso e solitario, la cui energia estrema è potentemente controllata e contenuta (al solito, equilibrio sulla forza e sulla tensione), mentre assicura la solida base drammatica necessaria sempre alla grande poesia alfieriana, sorregge qui non un tormentoso sfogo, ma un movimento di profonda intimità, il commutarsi del dolore in un «dolce oblio» delle pene del poeta, in un’immagine perfetta e pur mossa (e ben lontana sempre dalle condizioni di un vagheggiamento edonistico e puramente idillico), gentile, ma nobile e aristocratica, coerente all’eletto mondo di eccezione in cui anche la felicità si configura per l’Alfieri, coerente alla originalità potente delle sue immagini cosí schiettamente romantiche e diverse da ogni forma di immagine poetica o figurativa del Settecento.

Dopo queste rime e dopo l’ideazione delle tragedie dell’84, completate solo piú tardi, la forza poetica alfieriana subisce una sensibile diminuzione, in un anno che l’Alfieri ricordava come uno dei piú desolati e oziosi della sua vita: pochi sonetti si succedono fino alla nuova ripresa dell’86, quando essi si intrecciano con la stesura della Mirra, con la composizione del dialogo La Virtú sconosciuta e con il completamento del trattato Del Principe e delle lettere. E sono sonetti piú deboli e dispersivi, fra esercizi satirici piú diluiti e forme di narrazione diaristica tanto piú riuscita, fuori della difficile misura del sonetto, nelle lettere di questo periodo.

Nel nuovo gruppo di rime del 1786 (una trentina di sonetti, con un momento di particolare intensità e continuità nell’agosto e culminante in un nuovo grande sonetto, il 173), si trovano anche sonetti piú diaristici, fra i quali soprattutto notevoli quelli per la malattia e per la sorte del cavallo prediletto Fido: il 148, cosí efficace nella rappresentazione delicata e trepida del bel destriero malato a morte («Pieno ha l’occhio di morte») e pur nobilitato dal coraggio che il poeta ammira in lui: «Ei muor, qual visse, intrepido animoso»; il 149, che esalta con un movimento di fantasia pienamente alfieriana l’improvviso miglioramento del cavallo in una fervida e affettuosa immagine di vitalità e di gentilezza; il 156 cosí dolente, umano nel dialogo estremo con il diletto destriero «mansueto ardente» che il poeta è costretto a far uccidere per liberarlo dalla malattia dolorosa e incurabile. Ma insieme prevalgono nuove intense espressioni liriche della situazione del poeta che ha superato, nella nuova attività tragica e nella nuova esperienza della consolazione dell’amore, il senso piú avvilente dell’ozio malinconico.

E il poeta apprezza sempre meglio il valore di alti sentimenti consolatori (Gloria e Amore), anche se perciò insieme sente tanto piú dolorosamente la difficoltà del loro saldo possesso, il rimpianto della loro perdita nelle nuove lontananze della donna amata.

Ma un impeto di forza drammatica piú schietto e violento e una piú aperta volontà di autorappresentazione intera e tragica superano la condizione piú varia di questi primi sonetti dell’86 nel gruppo intenso di sonetti dell’estate, aperto dal vero e proprio autoritratto del 167, portato alla massima violenza nel 169 e nel 172, concluso in alta poesia nel 173.

La violenza del sonetto 169 è soprattutto concentrata nelle due potenti quartine, essenziali al piú profondo autoritratto drammatico dell’Alfieri, non solo «ingegnoso nemico di [se] stesso», ma dominato dalle native e congeniali spinte dell’ira e della malinconia:

Due fere donne, anzi due furie atroci,

tor non mi posso (ahi misero!) dal fianco.

Ira è l’una, e i sanguigni suoi feroci

serpi mi avventa ognora al lato manco;

Malinconia dall’altro, hammi con voci

tetre offuscato l’intelletto e stanco:

ond’io null’altro che le Stigie foci

bramo, ed in morte sola il cor rinfranco.[15]

Mentre una simile violenza si riversa, con una inaudita selvaggia intensità, nel sonetto 172, punta estrema di una sensibilità eccitata e sfrenata e di una tecnica aspra, qui sperimentata fino all’eccesso:

Tante, sí spesse, sí lunghe, sí orribili

percosse or dammi iniquamente Amore,

che i mie’ martiri omai fatti insoffribili

mi van traendo appien del senno fuore.

Or (cieca scorta) odo il mio sol furore;

e d’un pestifero angue ascolto i sibili,

che mi addenta, e mi attosca e squarcia il cuore

in modi mille, oltre ogni dir terribili:

or, tra ferri e veleni, e avelli ed ombre,

la negra fantasia piena di sangue

le vie tutte di morte hammi disgombre:

or piango, e strido; indi, qual corpo esangue,

giaccio immobile; un velo atro m’ha ingombre

le luci; e sto, qual chi morendo langue.[16]

Poi, come nei due grandi sonetti della Certosa di Grenoble e di Marina di Pisa, nel sonetto 173 si può anzitutto notare come un sentimento di dolore, sollecitato dalla solitudine aspra e selvaggia di un personaggio congeniale, si trasfiguri in una singolare condizione di «dolce tristezza» e addirittura qui di «calma e gioia»: non certo conquista di idillio (ché la base sentimentale e il paesaggio sono tutt’altro che idillici e distensivi), ma particolare approfondimento e assaporamento del dolore e della solitudine da cui di nuovo scaturisce un moto, che era vibrante ed esaltato nel sonetto della Certosa, e qui è piú complesso e pensoso nel piú vasto ambito di motivi che qui vengono riassunti (non tanto l’amore, quanto il rapporto con gli altri uomini, con il proprio tempo, con la tirannide) e che sono coerenti ai temi dell’autoanalisi e dell’autoritratto dominanti nei sonetti dell’86:

Tacito orror di solitaria selva

di sí dolce tristezza il cor mi bea,

che in essa al par di me non si ricrea

tra’ figli suoi nessuna orrida belva.

E quanto addentro piú il mio piè s’inselva,

tanto piú calma e gioja in me si crea;

onde membrando com’io là godea,

spesso mia mente poscia si rinselva.

Non ch’io gli uomini abborra, e che in me stesso

mende non vegga, e piú che in altri assai;

né ch’io mi creda al buon sentier piú appresso:

ma, non mi piacque il vil mio secol mai:

e dal pesante regal giogo oppresso,

sol nei deserti tacciono i miei guai.[17]

Di nuovo il paesaggio (un paesaggio preromantico senza il languore, le incertezze, le cadute canore di tanta letteratura settecentesca[18]) apre solidamente l’inizio del sonetto e sorregge le due quartine collaborando intimamente (paesaggio dell’animo e non descrizione pittoresca) con il primo sviluppo del motivo ispiratore («dolce tristezza» nella solitudine) in un doppio quadro: piú fermo ed assorto il primo, piú lentamente mosso e complesso il secondo.

Poi, sulla base di questa prima parte cosí compatta e cosí fortemente articolata, si svolge l’espressione di una profonda meditazione interiore, la giustificazione di quel sentimento di «dolce tristezza», di «calma e gioja» in una solitudine selvaggia (e si pensi ai deserti dell’Aragona e alle sterminate distese ghiacciate del Nord descritte nella Vita). Quel piacere nasce da un bisogno di solitudine e di assoluta separazione dagli uomini, non perché il poeta sia un misantropo e si consideri orgogliosamente perfetto e vicino piú degli altri uomini ad un ideale assoluto di virtú, ma perché il suo «secolo» è «vile», dominato da una tirannia che egli solo non accetta. La meditazione si realizza nella misurata, assorta preparazione della prima terzina e poi si rivolge piú energicamente in un vero grido dell’animo alfieriano: «ma, non mi piacque il vil mio secol mai», nel potente rilievo di un’angoscia pesante ed oppressiva, nella conclusiva e piú completa riaffermazione del motivo fondamentale del sonetto, lapidario e piú esplicitamente tragico-malinconico: «sol nei deserti tacciono i miei guai». La selva è diventata i «deserti», la «dolce tristezza» si è fatta piú assoluta e cupa: «tacciono i miei guai».

Di fronte al secolo illuministico che egli giudica privo di «forte sentire», l’Alfieri esalta lo stesso amore piú che in sé e per sé (e quale causa delle sue rime) come prova di altezza sentimentale, di superiorità dell’anima appassionata e della poesia che desta passione e «con cui ponno mill’altre alme infiammarsi», come il poeta dice nel sonetto 170, contrapponendo il proprio ideale di uomo e di poeta, dotato piú di sentimento che di ragione, al gelido razionalismo dei francesi (si vedano i sonetti 179 e 180), che sta diventando in questi anni l’obbiettivo della sua nuova polemica contro il secolo «niente poetico, e tanto ragionatore», della sua intensa contrapposizione degli uomini grandi (e siano magari anche i tiranni) e del volgo mediocre ed ottimistico.

In questa direzione, fra i sonetti dell’86 e i rari sonetti degli anni ’87-88 con i quali termina la prima parte delle Rime, vanno notati i sonetti 162, 171, 185, in cui si esprime anzitutto l’ansia di grandezza eroica dell’Alfieri che spezza in qualche modo il rigido contrasto tiranno-uomo libero ritrovando grandezza anche nel tiranno odiato, in grazia della sua potente tensione alla gloria, all’«immortal vita seconda», che per l’Alfieri è sempre un paradiso di uomini gloriosi, non un oltremondo cristiano: come avviene nel sonetto 162, potente meditazione poetica sulla morte di Federico II, «macchiato di assoluto regno» ma forse degno di «non nascer re». E contemporaneamente si svolgono un’ardente commemorazione dell’uomo grande e infelice (il Tasso del sonetto 185, a cui Roma negò tomba in San Pietro, pieno invece di tombe di papi, «turba di morti che non fur mai vivi») e la meditazione appassionata sulla morte eroica e gloriosa con cui l’uomo esalta la propria grandezza e rompe i vincoli limitativi della propria natura corporea cosí tormentosamente avvertiti dall’Alfieri. Meditazione che raggiunge tanta altezza poetica nel grido doloroso di Annibale (sonetto 171) il quale, nella morte ingloriosa presso il re Prusia, avrebbe, nell’immaginosa trasfigurazione alfieriana, rimpianto l’occasione perduta a Canne di morire eroico e vittorioso: «Canne, a mia fama adamantino scudo, / oh, ne’ tuoi campi dal mio carcer schiuso / mi fossi! or non morrei di gloria ignudo»[19].

Grandezza e miseria degli uomini è il tema che piú affascina l’Alfieri di questo periodo. Ma il centro di attenzione rimaneva sempre la propria situazione, il proprio autoritratto, e a conclusione della prima parte delle Rime si deve ricordare un sonetto, il 186, a cui l’Alfieri diede la funzione di un vigoroso e meditato riepilogo e di una giustificazione della propria vita e della propria opera. In forme intense e sicure, in un’articolazione perfetta e dominata, come in un lucido ragionamento, si svolgono i motivi che l’Alfieri considera essenziali alla sua vita e alla sua opera. Anzitutto la «vera di gloria alta divina brama», che è limitata dalle condizioni servili del suo paese natale; poi gli atti con cui l’uomo libero agisce per attuare ugualmente la sua fervida ispirazione: la netta separazione dal «volgo» dei suoi concittadini «conservi» (e si noti la mossa vibrante con cui la poesia adegua questo orgoglioso, consapevole primo movimento dell’uomo alfieriano, intollerante di ogni comunione col volgo degli schiavi) e l’abbandono della terra natale (patria fisica, ma non «patria» vera, perché non libera, secondo la celebre definizione della Tirannide).

Ma su questo punto vi è come un’esitazione, superata in una sicura conclusione dolorosa: egli si sente esule e, pur accettando la lontananza dalla terra natale per ragioni di libertà, «al suo nido ci pensa ognora». E perciò la sua azione, non potendo risolversi in una liberazione con la spada, si concreterà nella poesia che lo conduce alla gloria e rende consapevoli i suoi concittadini della loro servitú, iniziando cosí la loro maturazione alla libertà:

Uom, cui nel petto irresistibil ferve

vera di gloria alta divina brama;

nato in contrada ove ad un sol si serve,

come acquistar mai puossi eterna fama?

Dal volgo pria dell’alme a lui conserve

si spicca, e poggia a libertà che il chiama,

attergandosi e l’ire e le proterve

voglie del Sir, che la viltà sol ama.

Ma poi convinto, che impossibil fora

patria trovar per chi senz’essa è nato,

benché lungi, al suo nido ci pensa ognora.

Liberarlo col brando non gli è dato:

con penna dunque in un se stesso onora

e a suoi conoscer fa lor servo stato.[20]

Questo sonetto anticipa temi tipici degli ultimi anni alfieriani (brama di gloria, patria e libertà) e presenta anche uno schema che sarà ripreso nella seconda parte delle Rime, soprattutto nel grande sonetto 288. Mentre l’ultimo sonetto, il 188, anticipa anche piú esplicitamente certi parziali elementi di difficile pacatezza e saggezza senile che prevarranno appunto nella seconda parte:

Del dí primier del nono lustro mio

già sorge l’alba. Ecco, Prudenza e Senno

siedonmi al fianco; e in placid’atto e pio,

a una gran turba di sgombrar fan cenno.

Le audaci brame, e l’ire calde, e il brio

giovenil, che all’errar norma mi dienno;

ed altri ed altri i di cui nomi oblio,

tutti or dan loro: ed obbedir pur denno.

Ma, né pur segno di voler ritrarsi

fanno due alteri, il cui tenace ardore

par che col gel degli anni osi affrontarsi:

Poesia, che addolcisce e innalza il core,

vuol meco ancor, scinto il coturno, starsi;

e, sotto usbergo d’amistade, Amore.[21]


1 Son. 281, v. 9; Rime cit., p. 229.

2 Son. 87, vv. 3-4; ivi, p. 78.

3 Vv. 9-10; Rime cit., p. 15.

4 Ivi, p. 16.

5 Omaggio che corrisponde anche ad un rinnovato concentrarsi dell’Alfieri in essenziali letture, nello studio dei grandi poeti che egli voleva comprendere, gustare, ma soprattutto «sentire», contrapponendo alla lettura del “buon gusto” settecentesco quella, ormai cosí romantica, del sentimento, della partecipazione totale, della immedesimazione del lettore con il suo testo; e alla eclettica ammirazione per le “bellezze” dei vari poeti la violenta preferenza, la scelta appassionata dei poeti congeniali, la risoluta attenzione solo alla grande poesia: la quale è poi per l’Alfieri anzitutto energica espressione di forti ed eroiche personalità, di contenuti sentimentali robusti ed eccezionali.

6 Vv. 1-8; Rime cit., p. 56.

7 Vv. 13-14; ivi, p. 57.

8 Ivi, p. 60.

9 Le numerose suggestioni preromantiche di tenebrosi interni di templi gotici, il preromantico gusto sepolcrale, gli echi di tipici temi preromantici (l’amore infelice di Abelardo ed Eloisa) trovano qui un’intera, ispirata trasfigurazione diversamente funzionante: non in direzione di una degustazione descrittiva, ma in relazione ad un genuino, personale sentimento doloroso. L’iconografia preromantica prende consistenza lirica bruciando i suoi margini piú esterni di languore e di puro gusto del macabro e dell’orrido.

10 Ivi, pp. 65-66.

11 Ivi, pp. 79-80.

12 Ivi, p. 94.

13 Vv. 1-8; ivi, p. 95.

14 Ivi, p. 116.

15 Vv. 1-8; ivi, p. 143.

16 Ivi, p. 145.

17 Ivi, p. 146.

18 Dove è piú quel piacere soprattutto melodico e prezioso della famosa canzonetta del Rolli, Solitario bosco ombroso? E dove, anche, sono le vaghe evocazioni che ornavano una selva solitaria nel sonetto CLXXVI del Petrarca? Anzi qui l’indubbio spunto petrarchesco («Raro un silenzio, un solitario orrore / d’ombrosa selva mai tanto mi piacque», vv. 1-2) par quasi una base scelta dall’Alfieri per differenziare risolutamente la propria diversa poetica.

19 Vv. 12-14; ivi, p. 145.

20 Ivi, p. 156.

21 Ivi, p. 157.